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Not All Wolfmen: la recensione di Wolf Man, staccato

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Vi ricordate quella volta che Universal tentò di lanciare un universo condiviso Marvel-style sui mostri classici? No?! Vi sblocco un ricordo.

Va’ che belli.

Il Dark Universe, così doveva chiamarsi, avrebbe dovuto essere lanciato da La mummia con Tom Cruise, con il Dottor Jekyll di Russell Crowe nei panni del Nick Fury di turno, Johnny Depp nel ruolo dell’Uomo Invisibile e Javier Bardem in quello del mostro di Frankenstein. Non solo non se ne fece nulla, ma da allora Universal ha attivamente tentato di allontanarsi il più possibile da quell’idea obiettivamente del cazzo per dedicarsi a un rilancio dei propri mostri all’estremo opposto dello spettro: prodotti da Blumhouse, con un occhio al risparmio, questi nuovi film sarebbero stati slegati l’uno dall’altro e avrebbero aggiornato i personaggi alla sensibilità del 21° Secolo.

Siccome era andata grassa con L’uomo invisibile, un film davvero azzeccato nella sua metafora semplice e potente sulla violenza contro le donne, Universal e Jason Blum si sono detti “Squadra che vince non si cambia!”, e hanno appoggiato l’Uomo Lupo nelle manone di Leigh Whannell dicendogli: “Fai un po’ la stessa roba”. Lui si è spremuto le meningi per venirsene fuori con un metaforone altrettanto attuale e alla fine la soluzione è stata: “Lo chiamerò Wolf Man, staccato”. Sigla!

Sin dall’originale con Lon Chaney Jr., The Wolfman è sempre stato sinonimo di rapporti difficili tra padri e figli maschi. Addirittura il brutto remake diretto da Joe Johnston si concludeva con un duello tra padre (Anthony Hopkins) e figlio (Benicio Del Toro) tramutati in licantropi. Un’idea che, come direbbe Paolo Bonolis, è permasta anche in questa nuova versione. Whannell e la co-sceneggiatrice Corbett Tuck hanno pensato bene di mantenere la storia dei legami famigliari difficili, infarcendola però di tutto un discorso psicanalitico sui figli traumatizzati dai genitori e mascolinità tossica. Ci sta. Peccato che la realizzazione non sia, stavolta, all’altezza.

La trama! Blake (Christopher Abbott) è uno scrittore che vive a New York San Francisco e deve tornare nel buco di culo in Oregon dove è cresciuto dopo che suo padre, scomparso in circostanze misteriose anni prima, è stato dichiarato ufficialmente morto. Là, dovrà sgomberare la vecchia villetta di famiglia, una lugubre magione immersa nei boschi. Per farlo, Blake ha l’ottima idea di portarsi dietro la moglie Charlotte (Julia Garner. Tranquilli, appena arrivano nei boschi si mette la camicia a quadri come in Ozark), con cui è un po’ in crisi e spera di recuperare il rapporto, e la figlia Ginger (Matilda Firth, not related). Suo padre Grady (Sam Jaeger, not related) era il classico matto survivalista americano e ha cresciuto Blake in maniera molto rigida, lontano da tutto e tutti, finché Blake non si è giustamente rotto il cazzo ed è scappato. Ah, mi stavo dimenticando: i due vengono attaccati da un licantropo all’inizio del film, e Grady è ossessionato dal trovarlo. Come andrà a finire?!?

La famiglia tradizionale

Ok, avrete capito che al centro di tutto c’è la #Familia, e Wolf Man ci mette di fronte a due versioni della stessa, come a dire che può essere fonte di traumi ma anche l’unica salvezza. È tutto abbastanza ambiguo da affascinare: sì, a rappresentare l’idea positiva di famiglia è naturalmente quella che Blake si è costruito poi, ma c’è comunque aria di crisi e infelicità, e l’arco di maturazione di lui e Charlotte passerà dalla riscoperta di un legame profondo, oltre le piccole crisi quotidiane. L’altra bella idea è che Blake sia un bravo ragazzo, sicuramente segnato da un padre folle e con qualche squilibrio emotivo, ma niente di eclatante. Da quando è scappato, si è lasciato anche letteralmente alle spalle il modello di mascolinità rude e violenta del padre. Non è un caso che Whannell ce lo mostri mentre si fa mettere il rossetto dalla figlia per gioco. Blake è ossessionato dal proteggere Ginger, come suo padre lo era dal proteggere lui. E, per quanto Blake scelga di farlo in maniera diametralmente opposta, da genitore moderno e gentile quale è, la mela non cade mai lontano dall’albero. La morale del film la pronuncia apertamente Blake in una delle prime scene: “A volte, per proteggerti dalla sofferenza, sono i genitori stessi a farti soffrire”. Se potesse, Whannell gliela tatuerebbe in fronte.

Parte dunque molto bene Wolf Man. C’è il giusto grado di complessità nei rapporti fra i tre personaggi principali, c’è la prospettiva inquietante di un viaggio nell’ignoto, verso boschi dove si aggirano creature spaventose, i temuti Metaforoni. Perché sì, come avrete già capito, qui l’uomo lupo rappresenta senza mezzi termini il Trauma, con la T maiuscola, che se ne sta in letargo fino a che un bel trigger non lo fa scattare. Il trigger qui è un incidente d’auto, bellissimo e spaventoso: mentre sta raggiungendo la proprietà paterna, Blake vede una persona in mezzo alla strada, sterza di brutto e finisce giù per un dirupo. Quella persona era però un licantropo, Blake viene ferito e il resto lo potete intuire.

Praticamente Ozark

È a quel punto, quando scatta il metaforone, che purtroppo Wolf Man un po’ muore. Tutta la tensione accumulata fino a quel momento inizia ad afflosciarsi nell’attimo stesso in cui Blake e famiglia si rifugiano in casa per sfuggire al mostro all’esterno, senza ovviamente rendersi conto che la vera minaccia viene da dentro (capito? CAPITO??). Qui succede ancora una cosa interessante: per una volta, la trasformazione del protagonista non avviene in un attimo, ma è dilazionata per tutto il secondo atto. È una scelta precisa per presentare la licantropia, e dunque il trauma, come una sorta di infezione che ti avvelena lentamente l’anima, finché diventi irriconoscibile e non sei più nemmeno in grado di comunicare con i tuoi cari (anche qui letteralmente: Blake a una certa non riesce più a parlare). Va da sé che, finché la trasformazione non finisce, Blake resta un personaggio positivo e soprattutto una vittima come la moglie e la figlia, che non esita ad aiutare finché può (torna in ballo l’ossessione di cui sopra).

Altre cose belle: il modo in cui il film rappresenta i poteri del licantropo, uno stato di coscienza alterato in cui Blake percepisce sensazioni oltre la sfera umana e riesce a vedere al buio. Spesso Whannell passa dal punto di vista di Blake a quello di Charlotte/Ginger, e questi scarti portano sempre con sé piccoli colpi di scena che rileggono la geografia dell’azione. Ottima anche la trovata dell’autolesionismo di Blake, con ovvi risvolti psicanalitici, ma anche reali ricadute sul plot. Curioso infine che, coerentemente con il mondo secolarizzato in cui viviamo, in un film sull’Uomo Lupo non ci sia più posto per lune piene, pentacoli e maledizioni gitane. Tutto ciò che era gotico, compresa la villa di famiglia e il look del licantropo (ne parliamo dopo), diventa prosaico e realistico. Sono scelte precise per porre l’accento sul concetto del trauma psicofisico. Lo accetto.

L’autolesionismo! Il trauma! Gnamgnamgnamgnamgnam!

Quello che accetto un po’ meno è quanto il film si sgonfi dal momento in cui Blake e famiglia si chiudono in casa. Tutto è coerente con il modus operandi della Blumhouse: massimi risultati con minimi sforzi economici. Ci sta, quindi, che questo Wolf Man sia un film d’assedio alla Notte dei morti viventi, giocato tra mura domestiche che hanno oltretutto un significato più ampio e claustrofobico nell’economia della storia. Il problema è che Whannell e Tuck esauriscono le idee in fretta, e il secondo e terzo atto sono una sequela di scene tutte simili, con Blake che scopre i poteri e diventa sempre più losco, Ginger che frigna e Charlotte che si aggira guardinga per corridoi bui. Con poche eccezioni, tipo una scena all’esterno che ha poco senso logico, ma che è effettivamente necessaria per spezzare la monotonia.

“Sì ok, ma l’Uomo Lupo, proprio il mostro, com’è?”, vi starete chiedendo. Universal e Blumhouse hanno (giustamente) mantenuto il più stretto riserbo sul suo aspetto, a parte una foto leakata qualche tempo fa (più brutta del risultato effettivo, va detto). Purtroppo, anche qui, mi tocca dire che è deludente: coerentemente con il messaggio del film, Whannell ha scelto un’estetica “grounded” per il suo licantropo, che somiglia più a una persona malata che a un mostro classico. Capisco l’esigenza, ma si sarebbe potuto fare di meglio per trovare una convincente via di mezzo tra le due istanze.

“Oh mio dio, ma quello… è un metaforone!”

Per quanto, insomma, Whannell sia riuscito a trovare una lettura originale anche stavolta, al netto del fatto che con L’uomo invisibile la metafora era molto più liscia e molto meno forzata, non è riuscito invece a tradurre quella lettura in azione, a fondere le paroline “elevated” e “horror” in maniera soddisfacente. È talmente concentrato sul compimento della metafora da dimenticare di stupirci, tanto che chiunque abbia visto un film nella vita è in grado di capire nella prima mezz’ora, a stare larghi, dove si andrà a parare. E quando il metaforone prende il sopravvento sul godimento, sappiamo bene che saranno guai.

Cofanetto Universal’s New Monsters quote:

“Il lupo perde il pelo, ma non il trauma profondo determinato dal rapporto col padre.”
George Rohmer, i400Calci.com

>> IMDb | Trailer

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