C’era una volta Dolores Point Five. Ve la ricordate? Faceva parte della formazione originale dei redattori dei 400 Calci e ha scritto roba che a Val Verde è ancora incisa sulle colonne della palestra comunale. Ma fuori dal nostro caldo e accogliente cono di luce è conosciuta come Violetta Bellocchio, che nella vita ha fatto svariate cose tra cui scrivere romanzi di successo. L’ultimo si chiama La festa nera, ed è una bomba clamorosa consigliatissima a chi sa – o vuole scoprire – di cosa è capace lei e che genere di storie piacciono a noi. È con grande piacere quindi che ne approfittiamo per ri-ospitarla sulle nostre pagine, per tirare le somme sulla strana storia della saga di The Purge e a parlarci del prequel in questi giorni delle sale italiane. A voi il pezzo. (Nanni Cobretti)
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Ogni riferimento ecc…
Buongiorno. Una volta stavo qui a scrivere cose abbastanza brutte sotto pseudonimo. I tempi sono cambiati, prima in meglio, poi in peggio. Lieta di ritrovarvi firmandomi con il mio nome reale.
Andiamo al punto e andiamo dritti: stiamo facendo tutti delle vite mostruose, con una tale intensità collettiva e una tale potenza di fuoco puntata contro di noi che nel 2013, quando è uscita La notte del giudizio, sarebbero sembrate paranoie infondate e/o vaneggiamenti di un nichilista ansioso di raggranellare consensi cianciando di foschi presagi e prendendosi, in cambio, secchi cori di “ ‘a fanatico”, oppure, com’è successo, utilizzando alcune paure nascoste ma più che legittime per tirarne fuori una sceneggiatura medio-bassa bollata come “banale thriller distopico che non mantiene le promesse”.
Benissimo: il primo film della serie ha fatto tanti soldi, il secondo e il terzo hanno allargato l’orizzonte e hanno guadagnato altri soldi, e nel frattempo, meraviglia!, la distopia è diventata il paese reale. Se domani un governo mondiale proponesse una roba simile al Purge per tenere buona la rabbia del cittadino medio, credo che ci sarebbero le prevedibili contestazioni, credo che scatterebbero un po’ di status indignati, ma credo che il provvedimento alla fine passerebbe, e che un sacco di gente sarebbe contenta di uscire di casa e sparare al primo che capita gridando “lunga vita ai Nuovi Padri Fondatori!”.
Non so per quanti altri prodotti di genere si possa dire che si sono de-fictionalizzati strada facendo, e in tempi tanto brevi, però siamo messi così. Stateci.
Per arrivare a produrre un film decente, il franchise di The Purge ha dovuto scoppiare in mano ai suoi stessi realizzatori, ottenere un successo spaventosamente superiore alle aspettative, e arrivare al quarto capitolo, questo: il prequel dove si spiega come e perché la follia ha avuto inizio. La prima notte del giudizio, la prima volta che si è tentato di capire se come cura palliativa ai mali degli Stati Uniti si poteva introdurre l’ormai familiarissima dodici ore di crimine legalizzato, sirena che suona e servizi d’emergenza sospesi fino all’alba, e che Dio vi protegga, cittadini, sprangatevi in casa, siamo al baratro.
Se fosse una persona, il franchise di The Purge sarebbe un deficiente tatuato che va in galera perché ha cercato di scassinare un videopoker e ne esce cinque anni dopo con una laurea a pieni voti in Cooperazione Internazionale, un’incrollabile fede nell’Islam, una rete di contatti ramificati nell’intera classe disagiata, sette colloqui già in calendario per andare a fare l’organizzatore di comunità, una copia di Tra me e il mondo zeppa di frasi sottolineate, il bruciante desiderio di organizzare la rivoluzione dal basso unito alla consapevolezza che la lotta è lunga, l’esito incerto e i compagni destinati a cadere, però se è molto fortunato si è scritto delle lettere con una donna che gli ha masterizzato Good Kid M.A.A.D. City.
Questa non è, come è già stato detto con alzate di sopracciglio, “la svolta conscious di una serie di film fascistoidi”: questo è quanto succede quando il mondo va a troie e i registi/scrittori di genere si ricordano di essere sempre stati gli unici in grado di raccontare la realtà per come è davvero e di farlo utilizzando la storia, i personaggi e l’atmosfera, in modo da non perdersi un singolo spettatore per strada, allora si mettono a giocare.

bambini, vi presento la borghesia
Un passo indietro.
Quando uscì il primo Purge, il commento generale fu, “abbiamo combattuto tutta la notte per tornare in questo posto di merda?”: se avete una premessa devastante e la usate per fare una home invasion composta al 50-60% di corridoi molto mal illuminati e di cui tutti si ricordano solo i mezzi monologhi del fighetto sorridente che ripete “pleeeease let us purge”, complimenti per aver trovato i soldi, ma potevate spingere molto di più. (Anche se funzionava bene il piccolo colpo di scena sul finale, ben preparato dalle scenette inutili che mostravano le invidie sotterranee tra i privilegiati del quartiere residenziale – la gente che ha tutto vuole comunque stroncare chi secondo loro ha tutto ma non se lo merita, non ha fatto il percorso giusto, dove hai fatto il liceo?, MUTO TI VOGLIO, MUTO.)
Per gradi, poi, il mondo del film si è allargato. James DeMonaco ha alzato gli occhi, ha cercato di restituire allo spettatore un quadro più dettagliato. È stato nel secondo Purge (Anarchy) che abbiamo visto persone disperate scegliere di vendersi al miglior offerente come sacrificio estremo, persone razionali e determinate a proteggersi ma costrette a scappare perché il vicino decideva di usare la notte del vale tutto per tentare l’assalto con stupro. È stato nel secondo Purge che abbiamo avuto un protagonista moralmente ambiguo, uno che sì, voleva approfittare dello Sfogo per andare a raddrizzare un torto (l’unico torto di cui ancora non ci siamo liberati nel genere, il bambino morto: possiamo avere un altro trauma, ragazzi? Possiamo avere una crisi dei mutui, un licenziamento senza giusta causa, una caldaia in blocco, la mia è un incubo?), ma poi recuperava uno straccio di umanità e usava la forza per fare cose che non fossero la macellazione un tanto al chilo. E sempre nel secondo Purge abbiamo scoperto che in effetti un abbozzo di Resistenza c’era, con tutti i suoi limiti, dal situazionismo alla lotta strada per strada, e chi la faceva? Hood, razze non ariane e proletariato urbano. Il terzo Purge, quello che è stato la classica mollata di palla, portava la politica in primo piano, e pestava duro sui presunti vantaggi economici prodotti dallo Sfogo, con la senatrice democratica tutta d’un pezzo che dimostrava, durante un dibattito, che gli unici ad essersi arricchiti dal cambio di regime erano la lobby delle armi da fuoco e le compagnie assicurative, ma poi diventava un film di inseguimenti tutti uguali e strambe parentesi giga-baracconesche (al momento di scrivere non sono certa se questo sia il Purge con i neonazisti in libera uscita o quello con il fanatismo religioso. Tutti e due, forse, ma francamente si sedimenta male. Mi ricordo solo i russi, che temo di aver trattenuto solo grazie a una scena su YouTube.)
La serie ha sempre seguito la formula Blumhouse – anzi, per certi versi è stata il suo banco di prova, uno dei primi successi eclatanti – e a questo punto, lo possiamo dire, la formula è solida e collaudata: spendere un cazzo = incassare un botto, puntare su un marketing forte per il primo fine settimana e sperare che poi parta il passaparola, convincere la gente a vedere un film sulla base di una premessa provocatoria o presunta tale oppure di un effetto nostalgia abilmente cavalcato. (Certo, poi ci sono i casi in cui la premessa non c’è, la premessa è un titolo idiota, un manifesto sexy e una ragazza che corre, ma ci sta, ci sta tutto, bisogna produrre, bisogna generare, altrimenti vincono loro. Mettiti questi occhiali o ti faccio ingoiare la spazzatura.)
Sono convinta che nemmeno Blum e DeMonaco si aspettassero di vederci tanto lungo, e che ci siano state discussioni, magari alle due di mattina, con molti caffè, sull’opportunità o meno di seguire la realtà, di intervenire rispetto a quanto sta davvero succedendo là fuori, quindi qui dentro.
Mi piace pensare che qualcuno abbia detto “non sono arrabbiato, ma fosse L’ULTIMA mossa che faccio, mi chiudo la carriera dicendo UNA COSA”.
E già che c’erano, hanno preso un regista degno, uno che aveva prodotto Fruitvale Station e poi solo un anno fa aveva girato un piccolo film sulla razza. Tieni, ragazzino, questa è una serie di spaccatutto action/thriller ben avviata. Vediamo cosa ci combini, tu. Ecco le chiavi della macchina. Divertiti. Dacci dentro.

presentato senza commenti
Ora, il quarto Purge ce lo ricorderemo perché è quello che sembra un documentario sulla giornata media di una persona media nel momento in cui un governo fascista (ma al potere tramite elezioni regolari) decide di mettere in pratica un piccolo esperimento sociale, in circostanze molto controllate, e chi lo sa, magari se è un successo dall’anno successivo lo si può estendere all’intera nazione. È un prequel, appunto, quindi l’aria di “siamo nei cazzi, inutile vedere come sta performando il tweet” tira giù raffiche fin dai titoli di testa e sappiamo tutti com’è andata a finire, ma quanto butti male sul serio ce lo mette in tavola la prima scena: un colloquio per valutare chi è idoneo o meno a partecipare all’esperimento, un tossico pazzo dall’occhio sgranato e la pelle coperta di scarificazioni che straparla di quanto voglia solo bruciare tutto e rilasciare la rabbia ventiquattro sette, una psicologa che lo lascia passare. Ottimo candidato. Dacci dentro, fratello, tienilo vero. Sono scelte narrative significative, lo sono: mai visto un Purge che rinunciasse alla bolla del pre-tragedia. (La stessa, per dire, che raggelava il nuovo Giustiziere della notte: quante ventine, trentine di minuti delle nostre vite abbiamo passato a fissare persone felici nelle loro belle case spaziose che canterellavano mentre caricavano la lavastoviglie? Siamo tutti stanchi, lasciateci sfogare.) Altra scelta narrativa: il paziente zero dello Sfogo, il quartiere scelto per testare la teoria del rilascio della violenza come catarsi sana, è STATEN ISLAND. Qualcuno sa cos’è, Staten Island, al di fuori di New York? È il distretto della città che tutti gli altri disprezzano perché lo considerano gretto e reazionario, ma allo stesso tempo non offre alcuna reale attrattiva in termini di paesaggio o di movimento culturale, nulla per cui valga la pena di superare il pregiudizio e prendere il traghetto. Esatto, il posto che i Wu-Tang chiamavano Shaolin. Ma è anche il distretto natale di Pete Davidson del Saturday Night Live, che infatti ne parla malissimo ogni volta che può? Quello? Quello. Nella visione del film, un distretto che nella realtà è razzialmente misto e popolato da semi-bianchi americani da tre/quattro generazioni (ci abitano un sacco di irlandesi e italiani) diventa tutto nero o ispanico (dovrei rivederlo, ma credo che le uniche facce bianche siano – al netto di uno spoiler – i cattivi asserragliati nel palazzo della classe dirigente a smanettare con i monitor). Se sono tutti così, se sono tutti non bianchi e poveri, a parte tre veci simpaticissimi che si vedono poco ma mi hanno ricordato i vecchi leoni di Rap History, allora ci sta che un “esperimento controllato” sia stato posizionato nel luogo in cui, dati alla mano, poteva fare più danni.
Siamo messi così.

qualcuno può andare a controllare come sta RZA?
Si capiscono meglio altri elementi, mentre aspettiamo il bagno di sangue che ci è stato promesso. La piattaforma con cui sono stati eletti i Nuovi Padri Fondatori non è un incrocio di SUCA e MUTO come mi era sembrato di intuire fino a qui, ma un serenissimo “il Sogno Americano è morto, dobbiamo fare un altro sogno”. È uno schieramento autonomo, una specie di Libertarian Party che ha avuto fortuna, ha intercettato una delusione enorme e ci ha mangiato sopra per incistarsi saldamente al potere. Hanno facce di plastilina e obbediscono a una missione purificatrice in giacca e cravatta. E la gente prima ha votato questo schieramento di rettiliani impresentabili per ragioni molto reali – nessuno ha soldi, stato sociale al collasso, disoccupazione alle stelle, incazzatura ovunque – ma poi magari il Purge non lo vorrebbe, e i poveri cristi di Staten Island che hanno deciso di restare nel distretto durante l’esperimento l’hanno fatto perché hanno preso dei soldi – 5.000 dollari, non tanti, nemmeno pochi. Non devono nemmeno tirare uno schiaffo a nessuno se non ne hanno voglia. Ma i soldi sono soldi, e servono a tutti. E poi la voglia viene, e se non viene te la fanno venire, e se non te la fanno venire (spoiler).
Tra parentesi, mentre prepara i personaggi e te li fa vedere, finalmente, come gente che se la passa male e casca in trappola, questo è il film che finalmente risponde alle domande che si è fatto chiunque: ma santo Dio, se TUTTI i crimini sono legali per 12 ore, come mai la gente si butta in massa sull’omicidio anziché organizzare una bella rapina? Beh, in realtà è esattamente così che va. Ci sono due eccezioni – il gangster che vuole sostituire il capo, il tossico pazzo, Skeletor, che nelle prime tre scene si piglia lo scettro del personaggio memorabile di tutto il franchise, e poi lo scettro lo usa per sfasciare vetrine urlando frasi bibliche a caso, se non l’avete visto non potete capire– ma a parte questi due lesionati, i cittadini di Staten Island sono felicissimi di accanirsi contro un Bancomat, al massimo ne approfittano per calarsi pastiglie a una festa a tema, azzardare il brivido di una scopata all’aria aperta; non ne vogliono mezza di uccidere il prossimo loro. Molti hanno solo paura. Si nascondono in gruppi, pregano. Chiudono porte e finestre.
Però, allo stesso tempo, di gente pronta ad ammazzare, per i soldi, per il LOL, perché se non ti muovi tu ciao bello, ce n’è, e pure tanta. Stateci. I primi tre Purge non erano e non sono adesso dei film che la toccano piano – ti hanno sempre detto, non fatto capire, che lo Sfogo, salvo rare eccezioni, è la notte dell’anno in cui i ricchi bianchi vanno ad ammazzare i poveri, i fragili, i disagiati, quelli a cui si è fermata la macchina (si fermano sempre) – ma qui il “dire” diventa tutto il film. Qui il “dire” diventa un gigantesco SIAMO MESSI COSÌ che ti viene strillato in faccia per un’ora e mezza, unito al tentativo, timido, di risolvere il vizio di forma della serie: se questi sono thriller/action impegnati a denunciare la violenza insensata come soluzione di comodo che non sposta le sorti della società, perché sono realizzati con il cronometro in mano per non lasciare troppo tempo senza un omicidio bruttissimo in primo piano? Perché vogliamo il messaggio sociale che non fa sconti e il body count sempre più alto e insolito allo stesso tempo? Tranquilli: qui quando muore qualcuno sei solo molto triste per lui o lei, non hai nessun piacere colpevole, nessuna piccola luce ti si accende negli occhi. Qui, quando guardi cinque stronzi barricarsi in un appartamento di un palazzone, ti viene solo da pensare alle parole di No Church in the Wild, e speri che quella pistola sia carica davvero.

la brutalità delle cose spiegata all’utente medio del bowling di Lissone
Credo sia il primo Purge dove desideri che si salvi più umanità possibile, e sei felice quando un personaggio minore, uno di quelli che nell’economia della storia serve solo a recitare battute sconce o lamentarsi che le fanno male i piedi, arriva sano e salvo a vedere l’alba.
E sì, rilassatevi, bevete una Coca Cola e accendetevi una American Spirit, c’è comunque un po’ di gente che muore male o si salva all’ultimo secondo da una finaccia, ci sono gli sconosciuti mascherati e due falsi spaventi, ma ci sono tutte le cose urgenti che questi film non ti hanno mai dato: ci sono le barbone che decidono di vendicarsi di chiunque facendo le bombe con la spazzatura, ci sono i regolamenti di conti veri, quelli tra amici che dicono “mi prendo il potere, tu ne hai avuto troppo”, ci sono gli uomini appostati nei tombini che acchiappano per la fica le donne di passaggio, con un pussy grabbin’ motherfucker nei dialoghi che non è casuale per niente, ci sono le chiese buttate giù a mitragliate, ci sono i matti che dicono, “è arrivato il mio momento” e si fabbricano il guanto di Freddy Krueger con le siringhe, ma c’è, fortissimo, il senso di un potere che blocca tutto dall’alto, manipola le immagini e i fatti per piegare la realtà, imporre l’agenda, dominare il ciclo delle notizie sparandola sempre più grossa e stoppando ogni possibile discussione con una cazzata ancora più grande che arriva sempre più in fretta.
Distopia a chi.
A parte l’ovvio – sto scrivendo nella sala prima infanzia di una biblioteca della provincia di Cagliari, ascoltando Kanye e masticando una gomma alla nicotina, col cellulare spento per schivare la galleria fotografica di (spoiler), e alle sette di stasera presento una speculative fiction mia sulla piazzetta qui fuori, grazie, perché ve lo dico?, perché il personale è politico, figli miei, e perché le opere di fantasia, siano essere dischi libri o film, non esistono in una bolla fotonica separata dal mondo reale, specialmente se hanno avuto il discutibile onore di anticipare la realtà: andate a vederlo, La prima notte del giudizio. C’è roba. Succede tutto quello che avete sempre voluto succedesse. Può piacere e non piacere, come, ammettiamolo, il 90% delle cose che consumiamo nel pochissimo tempo libero che ci resta, però ha lo stesso il merito enorme di dire le cose come stanno e di dirle dritte. E al cinema i “film di indubbio impegno civile” si fanno nei periodi in cui non succede niente, ma quando la situazione si fa nera sono quelli dell’action, dell’horror e del combattimento che si rimboccano le maniche e si mettono in gioco, da sempre, tanto quanto, nel film, la borghesia armata di buone intenzioni non fa altro che peggiorare le cose, la psicologa che voleva veder realizzato il suo coraggioso esperimento sociale e ha avuto l’ideona di regalarlo ai fascisti ha solo il tempo di rendersi conto di quanto male abbia provocato, non di cambiare e non di salvare nessuno, la classe medio-alta si sbarra in tinello e osserva tremebonda l’andamento dei sondaggi mentre si chiede se forse in fondo questo Sfogo non sia un progettino niente male da considerare con attenzione democratica, tanto in fondo gira che ti rigira si scanneranno tutti tra di loro, e quindi, con calma e con pacatezza, la Resistenza si capisce che tocca farla ancora una volta agli attivisti, ai poveri, alle razze non ariane, alle femmine e all’occasionale spaccia in vena di redenzione.
Ora combattiamo.
DVD-quote suggerita:
“L’antifascismo lo sta facendo il produttore di Paranormal Activity. Stateci.”
Violetta Bellocchio per i400Calci
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