Con quel ritardo che puoi dissimulare solo fino a un certo punto dicendo “non passavano i mezzi” perché Natale viene solo una volta l’anno e quasi mai a marzo, eccoci qui a parlare di un film che è uscito a dicembre e che si chiama Black Christmas. Secondo remake (il primo uscì nel 2006, scritto e diretto dall’assistente alla regia di Final Destination 3 e con un cast fatto quasi esclusivamente di gente dai telefilm per ragazzini: un successo incredibile al botteghino, la critica si spellò le mani, pazzesco non ve lo ricordiate!), dicevo, secondo remake di un classico degli anni 70, semi-dimenticato-poi-riscoperto capostipite del genere slasher che da noi uscì col titolo (daltonicamente comico) Un Natale rosso sangue, Black Christmas ‘19 non è il classico slasher. E lo si capisce subito.
Senza scomodare il trailer, che comunque rimane un esempio prezioso della sottile arte di sintetizzare un intero film, trama, colpi di scena, conclusione e addirittura inquadratura finale, in soli due minuti e 40 secondi di montato — basta guardare il poster: non un volto di ragazza straziata dal dolore, né un volto di ragazza paralizzata dal terrore, non un coltellaccio che gronda sangue e neanche la maschera dell’assassino di turno, ma quattro ragazze donne inquadrate dalla testa ai piedi, forti e sicure di sé, armate, incazzate e pronte a fare nero il patriarcato. Più che un horror sembra l’album d’esordio di un girl band che ha impostato tutta la comunicazione sull’idea che “noi non siamo la classica girl band!”.

Spice World 2019
Imogen Poots è Final Spice, la classica protagonista di uno slasher: è bianca, è bionda, è pura di cuore e, anche se questa informazione non sarà mai rilevante ai fini della trama, è orfana. E soprattutto ha subito un trauma: l’anno precedente, durante una festa in una frat house, un ragazzo l’ha drogata e violentata, tra l’omertà dei confratelli e l’indifferenza delle autorità. Ma Final Spice non è sola in questa catartica avventura, a cantare in playback insieme a lei c’è SJW Spice, la nera politicamente impegnata in tutte le cause giuste, Younger Spice, la più giovane e svampita del gruppo, Hot Spice, la bona, Nerdy Spice, perché ha gli occhiali, Qualcosa Spice, che è nel poster e ha senza dubbio un ruolo nel film ma che mi venga un colpo se ricordo una sola cosa su di lei, e tante altre Spice senza nome e pertanto senza personalità che verranno prese di mira da un misterioso killer incappucciato in un campus deserto per via delle vacanze di Natale e per risparmiare sulle comparse.
Chi si celi, poi, sotto il cappuccio del killer è lampante dopo circa tre minuti (o al 61esimo secondo se state guardando il trailer) ed è un gran peccato perché se c’era un’intuizione davvero figa nel Black Christmas del ‘74 era la scelta di non svelare mai l’identità, né il movente, dell’assassino, secondo l’immortale principio che niente di quello che può scrivere uno sceneggiatore sarà mai spaventoso quanto l’immaginazione dello spettatore. Ma le priorità, come diventerà evidente tra poco, sono altre.

Senz’altro
È un film pieno di contraddizioni, Black Christmas, e quando dico pieno intendo una sola, che però basta e avanza a rovinarvi la giornata: è un horror PG-13.
Vale a dire è un film che si impegna a raccontare di gente che muore, ma spende una quantità veramente irragionevole di tempo a farla parlare invece che a farla morire, non mostra una goccia di sangue, non cerca l’orrore, non cerca nemmeno lo spavento, sbriga la maggior parte degli omicidi offscreen (!!!) e condensa tutta la violenza di cui è capace in un paio di scene e una zuffa finale mal coreografata. Principalmente perché Blumhouse, la casa di produzione che si è fatta un nome sfornando film di genere a basso budget ma di buona fattura in cui viene lasciata assoluta libertà ai propri registi, ha lasciato assoluta libertà a una regista a cui non interessava veramente fare un film di genere.
Black Christmas è, dichiaratamente, un pamphlet femminista che si scaglia contro la mascolinità tossica, la misoginia delle istituzioni e le discriminazioni di genere. Che parla di sorellanza, di solidarietà, di consenso, di cultura dello stupro ed entra molto nello specifico del fenomeno, tristemente diffuso e contro il quale si sta facendo molto poco, delle violenze sessuali nei campus americani. E non ci sarebbe nessunissimo problema, lo ripeto in capslock perché sia assolutamente chiaro, NON CI SAREBBE NESSUNISSIMO PROBLEMA, se lo facesse bene. Se non facesse parlare i personaggi esclusivamente per slogan o per spiegoni, se si fosse preso il disturbo di raccontare una storia meno idiota, se non avesse deciso programmaticamente di impiegare tutti i registri tranne quello del cinema.

Bravi bambini che avete imparato la poesia
Perché un cinema di genere che sia anche politico esiste, ne abbiamo nuovi ottimi esempi ogni anno (e negli ultimi anni sfornati dalla stessa Blumhouse!) e una cosa che nessuno ha mai fatto, da Romero a Jordan Peele passando per mezzo milione di altri autori e autrici che hanno raccontato con efficacia temi sociali con il linguaggio dell’horror, è stato dirsi “facciamolo senza violenza, così ci danno il PG-13 e il messaggio può raggiungere più persone”. Pure facendo finta che tu sia in buona fede, stai come minimo usando il medium sbagliato. È come se qualcuno mi spiegasse perché è importante fare la raccolta differenziata, citando studi, portando esempi pratici e utilizzando un linguaggio chiaro e accessibile, anche se io gli avevo chiesto due gin tonic.
Fino all’ultimo ho avuto la tentazione di dire che il risultato era scarsino, ma bel tentativo. E invece no, bel tentativo il cazzo. La scrittura pigra all’ennesima potenza (stiamo parlando, comunque, di un film dove i buoni sono buoni perché hanno subito una violenza, i cattivi sono cattivi perché dicono che le donne devono stare al loro posto e la componente sovrannaturale è spiegata con “they discovered something magical”), la contraddizione di voler raccontare una storia di empowerment femminile scordandosi di caratterizzare i personaggi femminili, la vigliaccheria di autocensurarsi per garantirsi una distribuzione più capillare (spoiler: non ha funzionato) fanno di Black Christmas un film non solo brutto, ma disonesto: l’aver voluto trattare Temi Sociali Importanti non è una scusa, è un‘aggravante.
C’è un posto speciale all’inferno per chi abbandona i cuccioli in autostrada, guarda i video senza cuffie sui mezzi e tratta il cinema di genere come il piano B di qualcos’altro. Gira e rigira si torna sempre lì, la scuola del “volevo fare un film ma non ero capace e così ho fatto un film horror”. Se questi sono fli avversari da cui deve guardarsi, il patriarcato può dormire sonni tranquilli.
Stream pirata-quote:
“Stop Maski Etero: The Meme: The Movie”
Quantum Tarantino, i400calci.com
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