Parlando di un film come The Invisible Man credo sia importante prima di tutto precisare l’importanza di quello che c’è ma non si vede e quello che si vede che non c’è.
Non occuperà nella nostra immaginazione un posto d’onore come il mostro di Frankenstein o il conte Dracula, lo stesso l’uomo invisibile è un membro imprescindibile di quella scuderia di mostri archetipici di cui la Universal sfrutta i diritti cinematografici da quasi cent’anni. Come i suoi più illustri colleghi vanta origini letterarie altissime — nasce con un romanzo di H. G. Wells — e come i suoi più illustri colleghi è stato fagocitato a tal punto dalla cultura popolare che quelle origini sono state abbondantemente perse di vista e a nessuno importa veramente più chi l’abbia scritto e come l’abbia scritto.
Grave.
Proviamo a rimediare.
Uno scienziato geniale, Adrian Griffin, scopre il siero dell’invisibilità. Lo sperimenta su se stesso, è un successo, ma c’è un imprevisto: la trasformazione non è reversibile! Griffin inizia lentamente a perdere il senno e, invisibile agli occhi della giustizia, compie azioni sempre più terribili. Ma… sarà vero che sta diventando un criminale, o l’invisibilità gli ha solo dato il pretesto per assecondare quella che è sempre stata la sua natura?

‘sup
Due cose saltano all’occhio. Una è che, nonostante la facilità con cui è stato adottato dall’immaginario horror, si tratta molto chiaramente di un racconto di fantascienza in piena regola. L’altra è che, vista con l’occhio allenato di oggi, questa è in tutto e per tutto, insindacabilmente, vi sfido a sostenere pubblicamente il contrario, l’origin story di un super cattivo, un cinecomic servito su un piatto d’argento che aspetta solo di essere girato con un budget spropositato e attori enormi in ruoli umilianti. E se dovessi scommetterci dei soldi direi che era esattamente questa la chiave di lettura su cui intendeva puntare la Universal, quando David Goyer si baloccava con l’idea di uno script e Alex Kurtzman vaneggiava di voler fare gli Avengers coi mostri: L’uomo invisibile come capitolo di un franchise, un kolossal di effetti speciali con Johnny Depp nel ruolo dell’ambiguo-ma-affascinante-sicuramente-un-po’-matto protagonista.

Segnatevi questa data: 22 maggio 2017, un momento storic–ooops.
Non lo sapremo mai con certezza, perché a volte anche a Hollywood succedono i miracoli: La Mummia floppa male e i produttori iniziano a fare i vaghi, Bride of Frankenstein, previsto per San Valentino 2019 (fa sempre ridere e dà la misura di che cazzo di priorità confusissime dovessero avere alla Universal) viene discretamente fatto sparire sotto il tappeto e piano piano l’idea del “Dark Universe” viene accantonata. La Universal ha limitato i danni ma ora si ritrovata con una serie di titoli annunciati o in pre-produzione con cui non sa più che fare ed è a questo punto che inizia la nostra storia, con l’ingresso in scena della Blumhouse.
Jason Blum ormai lo conoscete. Iconoclasta, visionario, animato da un furore sacro, si è distinto nel panorama cinematografico attuale grazie a idee rivoluzionarie e spregiudicate come “e se, tanto per provare una cosa nuova, facessimo film non di merda e che costano meno del PIL di una nazione?”. Universal è così disperata che accetta. In quattro e quattr’otto il migliore amico di James Wan, Leigh Whannell, viene rapito dal set di Upgrade e messo a scrivere e dirigere il nuovo The Invisible Man secondo il modello Blumhouse: un horror solido, minimale e, senza abusare dell’aggettivo “politico”, con una spiccata propensione a parlare del presente attraverso il duttile linguaggio del cinema di genere.
Certo, qualcosa di quell’idea di fare il cinefumetto tutto sommato dev’essere rimasta perché, in questa nuova incarnazione, Adrian Griffin è evidentemente Tony Stark: è ricchissimo, è un inventore geniale, vive in una casa che sembra un Apple Store, ha un’alta opinione di sé ed è un maniaco del controllo. E non credo sia un caso se in questa iterazione l’invisibilità è data non da un siero, ma da una tuta (l’inglese “suit” si applica senza probilemi anche alle armature di Iron Man), non qualcosa di così fuori dal mondo, ma una tecnologia “plausibile” in mano a un uomo con tanta immaginazione quanta hybris. La differenza è che Adrian Griffin è matto in culo e questa tecnologia pazzesca, invece che per aggiustare il mondo, la usa per perseguitare la propria ex.
E qui troviamo anche la svolta, l’intuizione che trasforma la premessa, diciamo pure datata, dello scienziato pazzo che diventa invisibile per fare gli scherzoni in una roba molto più intelligente e attuale di quanto avremmo immaginato. The Invisible Man sposta il fuoco dall’uomo invisibile alla sua vittima per raccontare, in modo dolorosamente accurato, una relazione tossica fatta di stalking e di abusi, fisici e soprattutto emotivi. La metafora non potrebbe essere più lampante di così: una violenza continua che è sotto gli occhi di tutti, ma che solo chi ne è vittima riesce a vedere. Ovviamente il film “fa paura” perché c’è il killer virtualmente onnipotente che non sai dov’è, non sai quando colpirà, sai solo che ha deciso di renderti la vita un inferno. Ma dove qualsiasi cretino avrebbe inserito il pilota automatico dei jumpscare per un’ora e mezza, Whannell va di sottrazione e lavora sui silenzi, sugli spazi vuoti, sulle reazioni più che sulle azioni. Mette in scena l’orrore più sottile, più reale, del sapersi perseguitati e non essere in grado di dimostrarlo, la frustrazione di non essere presi sul serio e la paura di restare (affettivamente) soli, in balia del proprio carnefice.
Detto fuori dai denti, The Invisible Man non è un film sulle donne che subiscono violenze. È un film sulle donne che denunciano e non vengono credute.

Bitches be crazy, am I right?
Se poi questo impianto delicatissimo, cerebralissimo, funziona a dovere è anche perché l’intero film poggia sulle spalle gigantesche (metaforicamente, nella realtà è piuttosto minuta) di una Elisabeth Moss che, di fatto, dà vita a due personaggi: il suo e quello del suo aguzzino, un nemico che è sempre presente, anche quando non si vede, anche quando non c’è. Non è facile lottare col nulla senza sembrare scemi, ma Moss fa un ulteriore passo in avanti, lotta col nulla e lo fa sembrare vero, lo fa sembrare una questione di vita o di morte, fin da quella primissima sequenza che da sola fa gelare il sangue.
In tutto questo Johnny Depp, a scanso di equivoci, si è fatto da parte già da un bel pezzo: sicuramente c’entra la sua proverbiale allergia ai film belli e che non ruotano al 200% attorno a lui, ma andiamo, in questo momento della sua carriera l’ultima cosa di cui aveva bisogno era interpretare un ex pazzo e violento. Non si può biasimarlo (nel senso che si può biasimarlo per un sacco di cose, circa tutte, ma non questa). Al suo posto, per quella scena e mezza in cui lo si vede, Griffin ha il volto di Oliver Jackson-Cohen, una di quelle facce da telefilm che hai visto un milione di volte e mannaggia se ti ricordi dove, tanto più efficace perché utile a portare avanti il discorso sull’assoluta banalità del male.

Oliver Jackson-Cohen in una scena del film
Se The Invisible Man non passerà alla storia sarà perché soffre dei limiti strutturali di qualsiasi horror modello cattivo-perseguita-protagonista/protagonista-passa-al-contrattacco e perché molto di ciò che dice non è necessariamente nuovissimo. Di thriller, anche fantascientifici, su stalker che non sanno accettare un no ne esistono a dozzilioni, mentre il filone sul tema del gaslighting ha origine negli anni 30 con una piece teatrale che si chiama Gas Light. Cionondimeno, che è una parola che amo usare, la visione e le intuizioni di Whannell, l’input produttivo della Blumhouse, la puntualità con cui un film del genere arriva sui nostri schermi e la chiave di lettura tutt’altro che ordinaria ne fanno una gemma rara in un panorama — l’horror da multisala* — ancora troppo scadente.
Bonus: ha un finale che è assoluta perfezione e ripaga qualunque fatica e sacrificio fatti per arrivarci.
Streaming-quote:
“Invisible men are trash”
Quantum Tarantino, i400calci.com
*Sì lo so che i multisala ora sono tutti chiusi ma stiamo parlando, e parleremo credo ancora per diversi mesi, di film che sono stati concepiti all’interno di quel sistema produttivo e di valori. È solo un modo per dire “cinema mainstream, dal grosso appeal commerciale e non esattamente d’autore”. Gesù, datevi una calmata, anche a me manca uscire di casa! Ah e se ve lo state chiedendo in Italia L’uomo invisibile si trova a noleggio su Infinity, su iTunes e su Chili.
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